di Giacomo La Verde
Nel turbine degli anni Trenta, mentre il regime fascista consolidava il proprio potere e si proiettava verso la costruzione di un impero mediterraneo, Benito Mussolini non guardava soltanto ai Balcani o all’Africa orientale.
Il Duce rivolse lo sguardo anche alla Palestina, là dove una rivolta araba prendeva forma contro il dominio britannico e contro l’avanzata del movimento sionista.
A dispetto della narrazione diffusa, secondo cui Mussolini avrebbe appoggiato la rivolta palestinese unicamente per indebolire Londra, i documenti archivistici rivelano che la scelta fu anche coerente con una visione ideologica ben precisa. Il fascismo concepiva il Mediterraneo come “mare nostrum”, erede naturale dell’Impero romano, e riteneva che l’ebraismo internazionale, spesso confuso e sovrapposto al sionismo, fosse uno degli attori principali della decadenza dell’Occidente e della sua subordinazione ai valori del liberalismo e della finanza.
In questo schema, la causa palestinese non era semplicemente un’occasione: era un fronte su cui proiettare l’ambizione imperiale italiana e al tempo stesso contrastare un avversario percepito come ideologico e culturale.
L’Italia fascista avviò, fin dal 1936, contatti regolari con il Gran Mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, leader spirituale e politico della rivolta araba, e simpatizzante dell’Asse. Il Mufti fu accolto a Roma nel 1937, in un incontro ufficiale con Mussolini, durante il quale furono gettate le basi per una cooperazione concreta. Il regime italiano si impegnò a fornire sostegno economico e logistico alla rivolta palestinese. I fondi, si parla di centinaia di migliaia di lire, venivano erogati attraverso canali diplomatici e servizi segreti, transitando spesso per ambasciate e consolati italiani nei paesi arabi. Aerei italiani furono utilizzati per trasportare materiale propagandistico e armi leggere destinate ai combattenti arabi. Oltre al sostegno finanziario dunque, l’Italia fascista fornì un consistente aiuto militare ai mujāhidīn palestinesi. Il Ministero della Guerra italiano predispose l’invio di 4.248 fucili di fabbricazione belga, 7 milioni di cartucce, 40 mitragliatrici S. Etienne con 4.000 colpi ciascuna, 25 tonnellate di dinamite, 150.000 inneschi e 150.000 metri di miccia. Questi armamenti, inizialmente destinati all’Etiopia, furono dirottati verso la Palestina attraverso canali clandestini, evidenziando l’impegno concreto del regime nel sostenere la rivolta.
In parallelo, il regime fascista fece di tutto per sabotare l’espansione sionista in Palestina. La propaganda italiana, diffusa attraverso giornali in lingua araba finanziati da Roma – come La Nation Arabe – presentava il sionismo come una minaccia colonialista e razzista, funzionale agli interessi anglo-americani. Gli ebrei erano il simbolo della “decadenza plutocratica” e di un ordine mondiale da abbattere. La posizione era dunque profondamente antisionista.
In questo contesto, il fascismo non fu semplicemente un “opportunista” che approfittava delle rivolte arabe per colpire Londra: fu un alleato ideologico, pur da una prospettiva diversa, di un certo nazionalismo arabo tradizionalista, unito dall’odio verso il colonialismo inglese e al disprezzo verso il progetto sionista.
Ed è proprio per questo che appare oggi tanto più incongrua e strumentale la tendenza, da parte della quasi totalità degli ambienti antifascisti, a evocare la causa palestinese come prosecuzione ideale della Resistenza italiana. Il 25 aprile, quantomeno nella testa (più o meno depensante) di chi lo festeggia celebra una lotta per la libertà, per la democrazia e contro un regime totalitario. La resistenza palestinese non si muove affatto su questi binari. Si tratta di una lotta nazionalista, spesso guidata da figure autoritarie, talvolta reazionarie, in aperta sintonia con i passati regimi fascisti europei piuttosto che con pseudo-realtà liberali e antifasciste.
Confondere la Resistenza con l’antisionismo arabo non è non solo un errore storiografico, ma anche una scorciatoia politica.
Rispettare la storia significa anche riconoscere queste distinzioni, e non piegare le vicende del passato a letture contemporanee che ignorano le contraddizioni di fondo. La lotta palestinese merita attenzione e analisi, ma va compresa nel suo contesto e non usata come simbolo improprio di battaglie che, con essa, hanno ben poco a che fare.
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